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   Se la caduta dell'uomo che consapevolmente cede alla tentazione della conoscenza è il peccato originale della cristianità, la storia di Edipo rappresenta la maledizione atavica dell'uomo, la colpa dell'inconsapevolezza. Per noi il male deriva dalla consapevolezza sociale di aver agito male, sapendo di fare del male, il dolo sta alla base della nostra legge, la colpa inconsapevole può essere perdonata anche senza punizione. Non è così per Edipo. “Nessuno sfugge al proprio destino” sembra essere il motto del personaggio. Il colpevole è lo stesso uomo che ricerca il colpevole, colui che è all'oscuro di tutto ricerca una verità che già conosce e che lui stesso ha creato. Il male è in lui e sono le sue stesse parole a condannarlo. Ma c'è dell'altro: il contagio, qualcosa di incomprensibile che germina nel sangue che versiamo e che generiamo, nelle azioni che compiamo e che subiamo, un'entità spaventosa e pericolosa che sfugge al nostro controllo e che spalanca un baratro laddove poggiano le nostre leggi morali. Allora siamo obbligati a porci una domanda: abbiamo ancora il diritto di vivere, vedere, esistere se cade su di noi la maledizione? Possiamo ancora essere parte di una comunità quando siamo i portatori di un contagio esistenziale? La nostra morale di oggi crede di sapere già la naturale risposta, quella che scaturisce dal perdono e dalla ragione, ma dentro di noi, nelle profondità più recondite del nostro essere, dove gli istinti ancora sopravvivono feroci cosa accade davvero, qual è la risposta? Nietzsche diceva: “Se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te”. C'è chi sceglie di non guardare, c'è chi ha guardato e non ha resistito e c'è chi come Edipo si è tolto la vista per continuare a vivere. 

 

 

 

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