Ci restano solo poche scuse dette con troppe parole; l'importante ci sfugge di mano. Ecco che cos'è Closer, un testo teatrale scritto con parole specifiche radicate nei nostri sentimenti. Il romanticismo, se mai è esistito, ora non esiste più, e se si manifesta è solo chiacchiera ridicola, vano parlare psicanalitico. Perché siano noi i personaggi di Closer, individualità perdute nella ricerca di un senso, disperatamente aggrappate a una qualsiasi mano che ci salvi dall'abisso delle solitudini. Non ci resta che l'inganno come soluzione, ma non riesce mai a bastarci. Cerchiamo le verità per poi soffrirne, l'assoluto senza comprenderne la crudeltà. E infine come bambini piangiamo, perché in fin dei conti, siamo solo vittime della nostra imperfezione, dei nostri desideri, all'interno di un universo troppo complesso per la nostra misera razionalità. Siamo vicini, ma mai abbastanza e quelle poche parole che conosciamo fluttuano nell'aria senza che noi ne comprendiamo il vero significato. “Ti amo” dice Dan a Alice; lei ribatte: “Dove?” E non c'è domanda più azzeccata. Perché dov'è il nostro amore? Nella chiacchiera, nelle nostre parole, nei sentimenti, nelle azioni, nell'eterno gioco di forze del possedersi, in quell'inganno che portiamo avanti sempre credendo di essere dalla parte del giusto, delle vittime, convinti di aver capito? Ma non resta altro che incomprensione e solitudine, quel vuoto dentro di chi non ha condiviso ma ha solo preso e il disperato bisogno mai appagato di sentirsi più vicini.